“Se fa male non è amore”

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Oggi, 25 novembre, è la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”.

Solo nel 2013 i femminicidi sono stati 179, circa uno ogni due giorni; un dato davvero impressionante se pensiamo che il 51,9% delle future vittime di violenza aveva già denunciato il suo aggressore almeno una volta.

Il racconto che segue è uscito dalla penna della nostra Martina, perchè è giusto parlarne anche su un blog come questo, per ricordare a tutte le ragazze che “se fa male non è amore”.

Giornata Internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne

La luce è fioca in questa stanza e non mi permette di pensare bene. Sento qualcuno parlare ma non riesco ad aprire gli occhi, sono troppo stanca, non voglio vedere nessuno.

Voglio pensare però, e questa luce mi urta.

Qualcuno la spenge? Per favore, qualcuno la spenge?

Non sembra la mia camera, anzi sono sicura che non lo è, non ci sono i disegni sul soffitto. Ma non sembra neanche la sua, ne riconoscerei l’odore inconfondibile da chilometri di distanza; d’altronde ero stata io a voler mettere quell’umidificatore attaccato al radiatore, sprigionava fragola e cannella ed era bello sentire la stanza inondata ogni qualvolta andassi a trovarlo.

Chissà adesso dov’è, chissà se è stato arrestato, se mio padre l’ha picchiato, se qualcuno mi ha salvata; mi sento lontana da tutto.

Eppure era bello, me lo ricordo, nonostante tutto ricordo la bellezza.

Quell’anello di diamanti, noi due insieme a scegliere la casa nella quale costruire il nostro nido d’amore, il quadro alla parete, quel pezzetto di giardino. Ne avevamo di idee noi due e avevamo quello che serviva per realizzare i nostri sogni…ma i miei genitori non volevano che me ne andassi così presto, non si fidavano di lui, non ci vedevano del buono. Avevano ragione? Non lo sapevo ancora, forse a lui serviva solo la stabilità di una famiglia, una donna forte accanto, un’altra possibilità.

Adesso sento il cigolio di una porta che si apre. E’ sempre più bianca, speriamo che qualcuno spenga la luce…

Una volta eravamo seduti in giardino e il mio telefono continuava ad illuminarsi, sullo schermo c’era scritto come sempre “mamma”, lei era l’unica che mi chiamava da quando era iniziata la mia storia con lui, tutte le mie amiche erano sparite e dopo un po’ neanche mia sorella aveva voluto più saperne; ma tanto io lo sapevo che quando mia madre chiamava lei era lì dietro a sentire le mie risposte, la conosco mia sorella, è la maggiore, si occuperà di me sempre e comunque.

La suoneria era insistente e sinceramente stonava rispetto a quella meravigliosa giornata, in cielo neanche una nuvola, le strade deserte e intorno un silenzio quasi sconcertante.

Era una domenica d’Agosto e si percepiva bene, la città si era svuotata per la classica gita al mare e molti si erano direttamente trasferiti in un’altra regione per trascorrere le vacanze.

C’eravamo noi due, e mi bastava, anche se il suo sguardo iniziava a prendere una strana piega e i suoi occhi cominciavano a restringersi. Odiava la mia famiglia, lo sapevo, e odiava mio padre. Quell’uomo l’aveva giudicato da subito ed era stato quell’uomo a denunciarlo dopo la prima volta in cui mi aveva messo le mani addosso quella sera che mi aveva vista ballare accanto a uno che non era lui. Mi aveva strattonata per un braccio, mi aveva portata fuori dal locale a spintoni e mi aveva tirato i capelli intimandomi di chiedergli scusa per esser stata una poco di buono.

Avevo davvero dato contro a mio padre dicendo che era stata solo una svista, che lui in realtà era diverso?

Davvero dopo la seconda volta in cui il mio corpo era tumefatto dalle botte avevo chiesto di ritirare la denuncia? Ero stata stupida, e me ne ero resa conto troppo pardi.

Forse dopo la seconda possibilità non ce ne sarebbero dovute essere altre, ma io ero sempre stata cocciuta e nella mia testardaggine credevo che mi amasse.

Credevo di averlo deluso essendo corsa a casa da papà a piangere per uno schiaffo, non riuscivo ad aprire gli occhi, non vedevo oltre quel confine, i miei genitori morivano ogni giorno perché sapevano che prima o poi io sarei morta davvero.

Ma lui in fondo era dolce: mi mandava sempre fiori freschi, diversi a seconda delle stagioni. Mi chiamava, mi chiedeva di incontrarsi, io scappavo di casa, mi regalava cioccolatini e collane con le perle. Poi tutto era passato e io dormivo ancora nel suo letto.

In un momento in cui lui era rientrato in casa, decisi di rispondere all’insistente canzonetta e mia madre cambiò subito tono di voce dopo avermi sgridato per non aver risposto prima.

Mi chiese come andava, cosa facevo, se il tempo reggeva col sole, poi lui uscì dalla porta.

Era un periodo “no”, era sempre nervoso, il lavoro scarseggiava e in tv non davano più il suo programma preferito.

“C’è qualcosa che non va?” gli chiesi titubante. Sapevo di non aver fatto niente di male, sapevo che non poteva avercela con me, non quella volta. E invece mi sbagliavo.

Non feci neanche in tempo a rendermene conto, aveva già le sue mani attorno al mio collo.

Ricordo soltanto il buio e la voce di mia madre che, attraverso la cornetta, chiamava a squarciagola aiuto.

La luce adesso è abbagliante, sento delle voci come infondo ad un tunnel, un’eco come un turbinare di foglie in autunno.

L’ospedale, l’infermiera, le sirene, l’ambulanza, mia sorella. È lei, è la voce di mia sorella che mi parla. Mi implora, piange, grida.

Ma la luce è più forte di tutto, mi gira la testa.

Voglio tornare, voglio vivere, qualcuno spenga questa maledetta luce.

 

Martina Buracci

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